di Beatrice Silenzi

Ci sono storie che riescono a toccare corde profonde dell’anima: storie che affrontano i temi dell’identità, dell’amore e della ricerca del senso della vita.
“Will Hunting – Genio ribelle” è uno di quei film che sono rimasti nel panorama cinematografico degli anni ’90, perché ammantati da una sceneggiatura coinvolgente e personaggi efficaci.

Il protagonista, Will Hunting (Matt Damon) è un giovane ventenne dallo straodinario talento nella matematica e dalla vita condizionata da un’esistenza modesta e trascorsi delinquenziali.
Lavorando come addetto alle pulizie al  Massachusetts Institute of Technology (MIT), Will si trova inaspettatamente di fronte a un’opportunità unica per sviluppare il suo potenziale, risolvendo un complesso problema matematico lasciato come sfida dagli accademici.

Tuttavia, il percorso di Will verso l’affermazione è ostacolato dai suoi problemi emotivi, dalle difficoltà a fidarsi degli altri e qui entra in scena il personaggio di Sean Maguire (Robin Williams), terapista esperto che riesce a penetrare nella corazza del ragazzo, intraprendendo con lui un viaggio emozionale ed aiutandolo a indagare le radici dei suoi conflitti e a superare le insicurezze.

Attraverso la relazione tra i due, il film affronta il senso di colpa, la paura dei rapporti umani e il desiderio di riscatto: Will è un personaggio complesso, che nasconde un’intelligenza straordinaria dietro una facciata ribelle e la sua evoluzione è il nucleo pulsante del film.
Damon porta sulle spalle il peso emotivo del suo personaggio, donandogli vulnerabilità ed intensità.

La regia è di Gus Van Sant, cattura l’essenza delle strade di Boston e dei corridoi del MIT, mentre la sceneggiatura, scritta a quattro mani da Damon e Affleck, è ricca di dialoghi e momenti di vera e propria poesia.
Il film rappresenta il viaggio di un giovane alla scoperta di se stesso, della sua vera identità, un cammino che coinvolge il pubblico in modo intenso e coinvolgente, un’opera di profonda umanità e di speranza.